Steve Coleman compie il miracolo di spingere l’eredità di Parker verso territori non toccati neppure dalle visioni di Coltrane, Ornette o Dolphy.
Le sue angolari architetture, innestate “senza perdere la tenerezza” su tempi composti di straordinaria efficacia, ben consci della vibrante cultura afroamericana delle metropoli, influenzano la quasi totalità del versante “Black” del jazz contemporaneo, ma anche figure più indipendenti come quella di Steve Lehman.
Nella seminale realtà degli anni Ottanta e Novanta, accanto alla nuova “Third Stream” di Zorn e alla rinascita “Cool” di Frisell e Motian, i suoi “Five Elements” stanno alla vibrante scena di Brooklyn come il quintetto di Parker stava alla Cinquantaduesima Strada nell’immediato dopoguerra: se si voleva sapere che strada avrebbe preso il jazz era lì che bisognava puntare l’orecchio.