HOW HIGH THE MOON
(Remembering Wes Montgomery)
I dieci anni che vanno dal 1958 al 1968 sono probabilmente i più propulsivi dell’ormai centenaria storia del jazz.
La novità più rilevante del decennio che aprirà all’uomo, e al jazz, le porte della Luna appare essere l’impetuosa occupazione creativa di ogni ambito linguistico, di ogni direzione esplorativa della musica occidentale, oltre alla capacità della musica afroamericana di dare alle pratiche sperimentali delle avanguardie colte, destinate ad un pubblico d’élite, una capacità di penetrazione fino a quel momento impensabile.
Quel decennio veloce sarà così il palcoscenico ideale per la definitiva affermazione della chitarra come voce non più secondaria dell’estetica musicale del jazz. Due voci su tutte, quelle di Jim Hall e Wes Montgomery, tanto opposte da risultare splendidamente complementari, guideranno come icone delacroixiane la scalata elettrica della chitarra all’olimpo del jazz. Hall inaugura la linea evolutiva “bianca”, che porterà poi fino a Bill Frisell, Montgomery incarna invece il versante “nero”, memore della profondità del blues e spinto dall’urgenza fisica e redentrice della danza.
Wes, in soli dieci anni, lascerà una traccia tanto profonda nell’immaginario chitarristico da affiorare, a tratti, perfino nella sintesi linguistica di Jimi Hendrix.
La sua personalissima rivoluzione in punta di pollice si svolgerà in un ambito apparentemente “centrista”, equidistante sia dal fuoco furibondo del Free Jazz che dalle rarefazioni del tardo Cool e della Third Stream Music. Montgomery sceglie come “campo” (direbbe Pierre Bourdieu) la tradizione del blues o della song americana, e lì vi impone, senza forzature, un rapporto col ritmo e con la produzione del suono totalmente alieno dai canoni eurocolti, in un’autorialità…