Niente di quello che è successo dopo la sua comparsa può dirsi veramente indipendente dalle sue intuizioni: non il flusso cinetico e senza fine di Coltrane, non il grido lancinante ed esistenziale di Coleman; non l’esplorazione intervallistica estrema di Dolphy né i giochi mentali abrasivi e “hip” di Rollins. Ma nemmeno l’apollinea levigatezza di Konitz o Desmond, o lo sforzo di una schiera di giovani musicisti come Bud Powell o Clifford Brown, che ne hanno saputo trasportare lo stile su strumenti diversi dal saxofono.
Il suo modo di intendere il Bop, diverso da quello altrettanto geniale di Monk e Gillespie, è stato più traducibile in una forma codificata, dunque in un linguaggio che diventerà lo standard su cui generazioni di jazzisti testeranno le proprie capacità immaginative e tecnico-strumentali.
Ma c’è di più: Parker diventerà, nel bene o nel male, il modello di un nuovo intellettuale afroamericano: irrequieto, orgoglioso, rivoluzionario nella sua arte ed hipster nel suo stile, non più disposto ad intrattenere e a compiacere il pubblico bianco e la critica borghese. È per tutto questo che, come si leggeva nel 1955 della sua morte, “Bird lives”: Bird, così come Parker veniva chiamato, continua a vivere, anche dopo la sua precoce morte, probabilmente più di ogni altro musicista di jazz. E analogamente a quanto accade in ambito rock con Jimi Hendrix.
Il Chiozzini non poteva non dedicare a Charlie Parker questa sua trentanovesima edizione, nella convinzione che una riflessione sulla sua musica e sulla sua eredità finisca inevitabilmente con l’essere una riflessione sullo stato di salute di tutto il jazz contemporaneo.
Niente di quello che è successo dopo la sua comparsa può dirsi veramente indipendente dalle sue intuizioni: non il flusso cinetico e senza fine di Coltrane, non il grido lancinante ed esistenziale di Coleman; non l’esplorazione intervallistica estrema di Dolphy né i giochi mentali abrasivi e “hip” di Rollins. Ma nemmeno l’apollinea levigatezza di Konitz o Desmond, o lo sforzo di una schiera di giovani musicisti come Bud Powell o Clifford Brown, che ne hanno saputo trasportare lo stile su strumenti diversi dal saxofono.
Il suo modo di intendere il Bop, diverso da quello altrettanto geniale di Monk e Gillespie, è stato più traducibile in una forma codificata, dunque in un linguaggio che diventerà lo standard su cui generazioni di jazzisti testeranno le proprie capacità immaginative e tecnico-strumentali.
Ma c’è di più: Parker diventerà, nel bene o nel male, il modello di un nuovo intellettuale afroamericano: irrequieto, orgoglioso, rivoluzionario nella sua arte ed hipster nel suo stile, non più disposto ad intrattenere e a compiacere il pubblico bianco e la critica borghese. È per tutto questo che, come si leggeva nel 1955 della sua morte, “Bird lives”: Bird, così come Parker veniva chiamato, continua a vivere, anche dopo la sua precoce morte, probabilmente più di ogni altro musicista di jazz. E analogamente a quanto accade in ambito rock con Jimi Hendrix.
Il Chiozzini non poteva non dedicare a Charlie Parker questa sua trentanovesima edizione, nella convinzione che una riflessione sulla sua musica e sulla sua eredità finisca inevitabilmente con l’essere una riflessione sullo stato di salute di tutto il jazz contemporaneo.