Ricordare con un festival Charles Mingus nel centenario della nascita ha posto all’organizzatore non pochi problemi sostanziali.
La sua enorme statura di strumentista avrebbe senz’altro permesso una rassegna di splendidi contrabbassisti, materiale che certo non manca in una scena jazzistica che ha fatto del virtuosismo il prerequisito necessario per avere l’attenzione generale.
Ma questa riduzione alla dimensione poetico-performativa sarebbe sembrata una semplificazione eccessiva per un genio eclettico come pochi altri nel jazz: Mingus compositore sublime, arrangiatore originalissimo, Mingus capace, anche attraverso psicodrammi epici, di attivare sperimentazioni di gruppo ed energie esecutive oltre ogni prevedibilità; Mingus in grado, come il “suo” maestro Ellington, di individuare voci uniche, quella di Eric Dolphy probabimente su tutte, e di estrarre da quelle poesia dolcissima o furente; Mingus sommo bluesman, ispirato ristrutturatore della musica delle chiese, anticipatore del jazz modale; Mingus capace di mischiare allo swing più torrido i colori etnici di Tijuana e le complesse strutture formali della musica colta contemporanea. Mingus capace di raccontarsi in un’autobiografia carnale e piena di vita come la sua musica. E infine Mingus che ha dato al contrabbasso una funzione strutturalmente orchestrale, specie se allacciato alla batteria di Dannie Richmond. Come alludere a tutto questo in un pugno di concerti?
La scelta non poteva che cadere su musicisti diversissimi per poetiche, anagrafe, provenienza, come il quintetto del sublime tenorista Charles Lloyd, il Trio Grande dello stupefacente contraltista Will Vinson e il quartetto della giovanissima e sensazionale sperimentalista canadese Steph Richards, rivelazione anche autoriale degli ultimi anni. Musicisti che in comune avessero l’instancabile ricerca di un linguaggio personale e degli spazi in cui dispiegarlo. Il lirismo, il canto e l’energia spirituale di Lloyd, l’articolazione ritmica ed intervallare sostenuta da uno swing inattaccabile di Vinson, la scrittura aperta come veicolo per improvvisazioni legate alla tradizione in modi non convenzionali per Richards. E a ricordare quanto inestimabile sia il patrimonio compositivo di Mingus i Quintorigo, con i loro archi “high energy”, mostrando che la musica del maestro di Nogales può vivere magnificamente anche lontano dagli organici più consuetamente jazzistici.